Mobbing

Per mobbing si deve intendere “un comportamento del datore di lavoro (o del superiore gerarchico, del lavoratore a pari livello gerarchico o addirittura subordinato), il quale, con una condotta sistematica e protratta nel tempo e che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili, pone in essere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro. Da ciò può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità” (ex multis: Corte di Cassazione 10.1.2012, n. 87, Cass. 10.12.2012, n°22393, Cass. 31.5.2011, n. 12048 e Cass. 17.2.2009, n. 3705).

requisiti del mobbing sono rappresentati dalla frequenza, dalla durata, dalla reiterazione e dalla particolare intensità delle azioni vessatorie intraprese e dal relativo e parimenti intenso danno patito dalla vittima, oltreché dall’intento persecutorio e/o discriminatorio posto in essere nei confronti di quest’ultima.

In particolare, il mobbing può essere di tipo verticale, ovvero dall’alto verso il basso (superiore versus dipendenti), o dal basso verso l’alto (dipendenti versus superiore, in tal caso si parla di bossing) e di tipo orizzontale, quando viene attuato tra colleghi.

Le azioni vessatorie, nei casi concreti, possono essere rappresentate dall’emarginazione del lavoratore, da provvedimenti disciplinari applicati sulla base di episodi di dubbia consistenza o fondati su presupposti di fatto errati o, comunque sovradimensionati, oppure da un demansionamento ingiustificato e dequalificante, dalla diffusione di maldicenze, da maltrattamenti verbali, offese personali e così via.

Le azioni vessatorie devono essere in grado, inoltre, di determinare, in capo al lavoratore precise conseguenze quali depressione, stati d’ansia, profonda sfiducia nelle proprie possibilità, grave compromissione alla vita di relazione e affettiva, problemi psichici di varia natura.

In caso di mobbing da parte del datore di lavoro – l’ipotesi più frequente –, la norma di riferimento è l’art. 2087 c.c., il quale prevede, in capo a quest’ultimo, l’obbligo contrattuale di adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore. Il datore di lavoro non solo è tenuto ad adottare tutti i mezzi di protezione individuali e collettivi che permettono la salvaguardia della sicurezza e della salute sul posto di lavoro, ma anche, da un punto di vista psichico, è tenuto all’abbattimento o quantomeno alla riduzione di fattori di stress legati alla prestazione lavorativa.
Il bene protetto dalla norma dettata dal codice civile, che ha portata generale, è rappresentato, dunque, dall’integrità fisica e morale del lavoratore.

In una causa instaurata innanzi al Giudice del Lavoro e volta al risarcimento del danno da mobbing occorre contestualizzare e documentare le azioni vessatorie poste in essere dal datore o dal collega, oltreché dimostrare e quantificare il danno subìto in conseguenza delle stesse. A tal proposito si segnala che la Corte di Cassazione a Sezioni Unite con la sentenza n. 6572/06 ha dissipato ogni dubbio circa il riconoscimento di un danno di natura esistenziale da mobbing, quale “pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare areddittuale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno”.

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