VADEMECUM IN CASO DI INTERVENTI ESTETICI MAL RIUSCITI

VADEMECUM IN CASO DI INTERVENTI ESTETICI MAL RIUSCITI

VADEMECUM IN CASO DI INTERVENTI ESTETICI MAL RIUSCITI

Quando si subiscono danni in conseguenza di un intervento chirurgico di natura estetica, bisogna tenere bene a mente che, se si decide di intraprendere una causa di risarcimento danni, è necessario fornire la prova delle seguenti circostanze:

  • dell’esistenza del contratto o del “contatto” tra paziente e Medico;
  • dell’aggravamento della situazione patologica o dell’insorgenza di nuove patologie;
  • del relativo nesso di causa con l’azione o l’omissione del Medico, secondo il criterio della normalità causale ossia del “più probabile che non”.

Spetterà invece al Medico dimostrare che la prestazione professionale sia stata eseguita diligentemente e che l’esito infausto dell’intervento sia stato causato da un evento imprevisto e imprevedibile.

In particolare, secondo l’orientamento della Cassazione civile, il paziente ha il solo onere di dedurre qualificate inadempienze astrattamente idonee a porsi come causa o concausa del danno. Di contro, spetta al Medico convenuto l’onere di dimostrare che nessun rimprovero di scarsa diligenza o di imperizia possa essergli mosso ovvero che, pur essendovi stato il suo inesatto adempimento, questo non abbia avuto alcuna incidenza causale sulla produzione del danno (cfr. Cass., n. 15993/2011).

Per adempiere al proprio onere probatorio e sostenere fondatamente un’azione di risarcimento danni, il danneggiato dovrà preliminarmente munirsi, come minimo, della seguente documentazione:

  1. Cartelle cliniche relative all’intervento subito.
  2. Documentazione fotografica il più esaustiva possibile: le foto della propria situazione precedente e le proprie foto dopo l’intervento.
  3. Eventuali referti medici che certificano i problemi insorti in conseguenza dell’intervento.
  4. Relazione medico legale che accerti l’entità del danno, la responsabilità del Medico e il rapporto di causalità esistente tra il danno e la malpractice.
  5. Eventuale relazione di uno psicologo che certifichi il disagio e i danni di natura morale post-intervento.

OMESSA INFORMAZIONE IN MATERIA IN INTERVENTI ESTETICI: LA RESPONSABILITA’ E’ AUTOMATICA

OMESSA INFORMAZIONE IN MATERIA IN INTERVENTI ESTETICI: LA RESPONSABILITA’ E’ AUTOMATICA

OMESSA INFORMAZIONE IN MATERIA IN INTERVENTI ESTETICI: LA RESPONSABILITA’ E’ AUTOMATICA

Commento a Cassazione Civile, sez. III, sentenza 06/06/2014 n° 12830.
Il caso sottoposto al vaglio della Cassazione civile riguardava un intervento di chirurgia estetica – tecnicamente riuscito –, volto alla rimozione di un tatuaggio sulla spalla.

Tale intervento, tuttavia, aveva lasciato sulla pelle della paziente una brutta cicatrice senza che ciò fosse stato prospettato come rischio dal Medico operante.

L’inestetismo cagionato alla paziente era dunque più grave di quello che si mirava ad eliminare o ad attenuare e su tali ragioni veniva fondata la richiesta di risarcimento da parte della prima.

La Cassazione nel proprio iter motivazione ha rilevato che:

  • l’intervento era stato eseguito a regola d’arte;
  • si era verificato un danno alla salute sotto il profilo del peggioramento delle condizioni estetiche;
  • non erano state fornite alla paziente le informazioni rilevanti per consentirle di maturare una decisione libera e consapevole.

Sulla base di tali rilievi, la Corte affermava che, laddove ad un intervento di chirurgia estetica consegua un inestetismo più grave di quello che si mirava ad eliminare o ad attenuare, una volta accertato che di tale possibile esito il paziente non era stato compiutamente e scrupolosamente informato, a ciò consegue auotamticamente la responsabilità del medico per il danno derivatone, quand’anche l’intervento sia stato correttamente eseguito.

La particolarità del risultato perseguito dal paziente e la non necessarietà dell’intervento, in termini di tutela della salute, consentono di presumere che il consenso non sarebbe stato prestato se l’informazione fosse stata offerta.
Le conseguenze risarcitorie, nel caso di assenza o insufficiente consenso informato, sono diverse nel caso di interventi ”salvifici o necessari” rispetto a quelli “estetici” e non necessari.

Infatti, in caso di interventi salvifici non preceduti da una rigorosa in formativa, da cui siano derivate conseguenze dannose, il Medico può essere chiamato a risarcire il danno alla salute solo se il paziente dimostri che ove compiutamente informato, egli avrebbe verosimilmente rifiutato l’intervento, non potendo altrimenti ricondursi all’inadempimento dell’obbligo di informazione alcuna rilevanza causale sul danno alla salute.

In caso di interventi non necessari, invece, un’operazione compiuta senza valido consenso perde a priori qualsiasi fonte di legittimazione, con ogni conseguente assunzione di rischio in capo al Medico, anche a fronte di interventi eseguiti a regola d’arte.

IL PREPOSTO

IL PREPOSTO

IL PREPOSTO

Obblighi e responsabilità del preposto all'interno di un'azienda

L’art. 2 del D.Lgs. 81/2008 (Testo Unico in materia di sicurezza sul lavoro) definisce specificatamente la figura del “Preposto” quale soggetto che, in ragione delle competenze professionali e nei limiti di poteri gerarchici e funzionali, svolge quattro compiti:

  1. sovrintende alla attività lavorativa;
  2. garantisce l’attuazione delle direttive ricevute in materia di igiene e sicurezza;
  3. controlla la corretta esecuzione di tali direttive da parte dei lavoratori;
  4. esercita un funzionale potere di iniziativa (ad es.: potere di interrompere il lavoro in situazioni in cui emerga un significativo pericolo per la salute dei lavoratori).

Il preposto rappresenta una figura chiave che può affiancare il datore di lavoro nei compiti di sovraintendenza del sistema di gestione per la sicurezza e la salute nei luoghi di lavoro, con compiti meramente di controllo diretto sui lavoratori a lui assegnati.

In tale figura rientrano i capi-squadra, i capi-reparto, i capi-officina, i capi-sala etc. i quali  hanno il compito di dirigere e sorvegliare il lavoro dei componenti della quadra/reparto/officina/sala, indipendentemente da una nomina ufficiale o da un conferimento formalizzato per iscritto (art. 299 del D.lgs 81/08 che sancisce il principio di effettività in base al quale gli obblighi di datori di lavoro, dirigenti e preposti gravano altresì su colui il quale, pur sprovvisto di regolare investitura, eserciti in concreto i poteri spettanti a tali figure. Tale principio è confermato anche dalla giurisprudenza es. Cassazione, Sezione III Penale n. 22118 del 03/06/2008).

Il preposto, dunque, è chiunque abbia assunto, in qualsiasi modo, posizioni di preminenza rispetto agli altri lavoratori, tanto da poter impartire ordini, istruzioni o direttive sul lavoro da eseguire e sulle norme di sicurezza da osservare. Il preposto è chi possiede “di fatto” l’autorità per dare ordini, istruzioni e direttive sul lavoro da eseguire e per tale ragione deve essere egli stesso prima di tutti gli altri, tenuto all’osservanza ed all’attuazione delle misure di sicurezza, nonché al controllo del loro rispetto da parte dei singoli lavoratori.

Lo specifico ruolo di garante della sicurezza è confermato dall’art. 18, co. 3-bis, introdotto dal decreto n. 106/2009, il quale prevede l’esonero da responsabilità del datore di lavoro ove la violazione verificatasi consista, unicamente, in un inadempimento ai propri obblighi da parte del preposto e manchi una culpa in vigilando del datore stesso.

L’art. 19 del TU sulla sicurezza elenca nel dettaglio gli obblighi del preposto:

A) sovrintendere e vigilare sulla osservanza da parte dei singoli lavoratori dei loro obblighi di legge, nonché delle disposizioni aziendali in materia di salute e sicurezza sul lavoro e di uso dei mezzi di protezione collettivi e dei dispositivi di protezione individuale messi a loro disposizione e, in caso di persistenza della inosservanza, informare i loro superiori diretti;

B) verificare affinché soltanto i lavoratori che hanno ricevuto adeguate istruzioni accedano alle zone che li espongono ad un rischio grave e specifico;

C) richiedere l’osservanza delle misure per il controllo delle situazioni di rischio in caso di emergenza e da istruzioni affinché i lavoratori, in caso di pericolo grave, immediato e inevitabile, abbandonino il posto di lavoro o la zona pericolosa;

D) informare il più presto possibile i lavoratori esposti al rischio di un pericolo grave e immediato circa il rischio stesso e le disposizioni prese o da prendere in materia di protezione;

E) astenersi, salvo eccezioni debitamente motivate, dal richiedere ai lavoratori di riprendere la loro attività in una situazione di lavoro in cui persiste un pericolo grave ed immediato;

F) segnalare tempestivamente al datore di lavoro o al dirigente sia le deficienze dei mezzi e delle attrezzature di lavoro e dei dispositivi di protezione individuale, sia ogni altra condizione di pericolo che si verifichi durante il lavoro, delle quali venga a conoscenza sulla base della formazione ricevuta;

G) frequentare appositi corsi di formazione.

Qualora detti obblighi non vengano osservati, il preposto è soggetto alle sanzioni individuate dall’art. 56:

a) arresto fino a due mesi o ammenda da 438,40 a 1.315,20 euro per la violazione dell’articolo 19, comma 1, lett. a), c), e), f);
b) arresto sino a un mese o ammenda da 219,20 a 876,80 euro per la violazione dell’articolo 19, comma 1, lett. b), d), g).

L’UTILIZZO DELLE PARTI COMUNI NEL CONDOMINIO

L’UTILIZZO DELLE PARTI COMUNI NEL CONDOMINIO

L'UTILIZZO DELLE PARTI COMUNI NEL CONDOMINIO

L’art. 1102 c.c., applicabile anche al condominio sebbene dettato in materia di comunione, consente al condominio di servirsi della cosa comune, “purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto”.

Per quanto concerne la nozione di uso paritario della cosa comune, la Corte di Cassazione ha affermato che essa “non va intesa nel senso di uso identico e contemporaneo, dovendo ritenersi conferita dalla legge a ciascun partecipante alla comunione la facoltà di trarre dalla cosa comune la più intensa utilizzazione, a condizione che questa sia compatibile con i diritti degli altri” (Cass. Civ., sez. II, 30 maggio 2003, n. 8808).

Quindi, a prescindere dalle quote di proprietà, ciascun condomino ha diritto di servirsi del bene comune nella sua pienezza; è possibile anche un uso più intenso della cosa da parte di un singolo, a condizione, tuttavia, che non venga pregiudicata la facoltà degli altri condomini di fare pari uso del bene.

Secondo la giurisprudenza di legittimità (Cassazione, sentenza 14107/2012), l’uso particolare e più intenso che il singolo condòmino intende trarre dal bene comune (ad esempio il muro perimetrale) deve essere compatibile con i diritti degli altri, in quanto i rapporti condominiali fondano sul principio di solidarietà, che impone un costante equilibrio tra le esigenze e gli interessi di tutti i partecipanti alla comunione.

Conseguentemente qualora il singolo condòmino volesse demolire una porzione di muro per ampliare o ricavare porte o finestre o per installare vetrine nel tratto corrispondente all’immobile di sua proprietà esclusiva, si verificherebbe solo un uso più intenso che non andrebbe ad impedire né a limitare il pari uso altrui.

Sulla scorta di tali considerazioni, la Suprema Corte ha riconosciuto pienamente legittima l’apertura, sul muro condominiale di nuove porte e finestre, o l’ampliamento di quelle esistenti, trattandosi di interventi che di per sé non incidono nemmeno sulla destinazione della cosa comune (così, di recente, Cassazione sez. II, sentenza 03 gennaio 2014 n. 53¸ Cass. sez. II, sentenza 3 giugno 2015, n. 11445).

A tale ultimo proposito, la giurisprudenza consolidata della Cassazione ha precisato che, poiché i muri perimetrali di un fabbricato condominiale adempiono alla funzione di recingere l’edificio, delimitandone il perimetro, il singolo condomino può legittimamente utilizzare il muro comune per aprire nuove porte e finestre (Cassazione, sentenza 5122/1990) ovvero per trasformarle in balconi o in vetrine di esposizione (Cassazione, sentenza 1390/1971) anche mediante l’abbattimento del corrispondente tratto del muro che delimita la proprietà del singolo immobile (Cassazione, sentenza 2703/1989), perché queste modifiche non incidono sulla destinazione del muro (Cassazione, sentenza 420200/2005).

Si evidenzia, infine, che la Cassazione, nella sopracitata sentenza 53/2014 ha affermato che per queste opere modificative, che non alterino la destinazione del muro, non impediscano l’altrui pari uso e/o non compromettano il decoro dello stabile – quest’ultimo  da valutarsi in base alla linea estetica, avuto riguardo alla fisionomia della costruzione –  non c’è alcuna necessità di ottenere l’approvazione assembleare, trattandosi di esercizio delle facoltà inerenti al diritto dominicale su parti comuni (si veda anche la sentenza di Cassazione 3508/98); e se il condòmino intendesse comunque sottoporle all’assemblea per ragioni di correttezza e civile convivenza, l’eventuale autorizzazione concessa rappresenterebbe un mero riconoscimento dell’inesistenza di interesse e di pretese degli altri condomini a questo tipo di utilizzazione, mentre l’eventuale delibera contraria non precluderebbe al richiedente la possibilità di attuare la modifica, indipendentemente dalla mancata impugnazione della stessa (si vedano anche le sentenze di Cassazione 1554/1997 e 3508/1999).

ESECUZIONE VOLONTARIA DI UN TESTAMENTO NULLO

ESECUZIONE VOLONTARIA DI UN TESTAMENTO NULLO

ESECUZIONE VOLONTARIA DI UN TESTAMENTO NULLO

Quando un testamento è nullo, ma non è possibile impugnarlo

L’art. 590 c.c. sancisce l’impossibilità di fare valere la nullità di un testamento per quei soggetti che, pur conoscendo la causa di tale nullità, abbiano, dopo la morte del testatore, confermato la disposizione testamentaria o dato ad essa volontaria esecuzione.

Chi ha dato volontaria esecuzione alla disposizione testamentaria, pur conoscendone il motivo di invalidità e ponendo così in essere un comportamento inconciliabile con la volontà di impugnarla è in grado di determinare una sorta di convalida del testamento per facta concludentia.

In altri termini questa sorta di convalida opera attraverso un comportamento di attuazione della disposizione invalida (ad esempio: consegna dei beni mobili ai beneficiari indicati nel testamento, consegna della chiave di un immobile legato per testamento), in grado di determinare volontariamente, rispetto ai beni ereditari, lo stesso mutamento della situazione giuridica che si sarebbe prodotto se il testamento fosse stato valido.

La ratio di tale istituto è evidentemente insita nel principio di conservazione degli atti giuridici (v. Cass. 19.04.1956 n. 1192), maggiormente giustificato negli atti mortis causa considerato che in essi l’autore non è più in grado di rinnovare il negozio, eliminando la causa di invalidità e, in secondo luogo, nell’intento di consentire ai congiunti del de cuius di dare esecuzione ai suoi atti di ultima volontà ancorché espressi in modo formalmente o sostanzialmente difforme dalla fattispecie normativa.

Il risultato generato dalla norma non è una vera e propria sanatoria, in quanto il testamento è e rimane invalido. E’ l’iniziativa di impugnazione a subire una limitazione, venendo infatti preclusa a coloro che hanno dato volontaria esecuzione a detto testamento.

Andando ora ad analizzare i presupposti contemplati dall’art. 590 c.c., essi sono rappresentati dalla nullità (o annullabilità) delle disposizioni testamentarie e dalla volontaria e consapevole esecuzione delle stesse.

Quanto al primo aspetto, si segnala che è pacificamente ammessa la sanabilità delle disposizioni testamentarie nulle in quanto inficiate da vizi di carattere formale. Ciò risulta non solo dalla lettera dell’art. 590 c.c. (“da qualunque causa dipenda”), ma anche dalla relazione al codice che fa testuale riferimento ai vizi di forma. Di conseguenza è senza dubbio ammissibile la conferma/esecuzione volontaria di un testamento olografo nullo per mancanza di autografia (v. Guido CAPOZZI, Successioni e donazioni, Tomo I, Milano, 2009, p. 931). Diversamente l’art. 590 c.c. si ritiene inapplicabile nelle ipotesi di insussistenza in rerum natura della disposizione testamentaria nulla, ossia ove manchi radicalmente la volontà del testatore, come avviene, ad esempio, nei casi di testamento nuncupativo (in forma orale), nei casi di testamento falso (laddove la volontà testamentaria sia stata coartata da violenza assoluta o sia del tutto inventata) e nel caso di una clausola testamentaria che contenga disposizioni contrarie all’ordine pubblico o al buon costume.

Per quanto riguarda, invece, il concetto di “esecuzione volontaria”, esso indica qualunque comportamento con il quale il soggetto adegua lo stato di fatto alla situazione che sarebbe stata creata dal negozio nullo, ove fosse stato valido.

L’esecuzione, però, oltre che volontaria, deve essere consapevole, ossia compiuta con la conoscenza non soltanto dell’esistenza della causa che ha determinato la nullità, ma anche del suo effetto (nullità o annullabilità). Si tratta, cioè, della “conoscenza storica del fatto invalidante e delle possibili conseguenze giuridiche” (Cass. 16.05.1966 n. 1236).