ESECUZIONE VOLONTARIA DI UN TESTAMENTO NULLO

ESECUZIONE VOLONTARIA DI UN TESTAMENTO NULLO

ESECUZIONE VOLONTARIA DI UN TESTAMENTO NULLO

Quando un testamento è nullo, ma non è possibile impugnarlo

L’art. 590 c.c. sancisce l’impossibilità di fare valere la nullità di un testamento per quei soggetti che, pur conoscendo la causa di tale nullità, abbiano, dopo la morte del testatore, confermato la disposizione testamentaria o dato ad essa volontaria esecuzione.

Chi ha dato volontaria esecuzione alla disposizione testamentaria, pur conoscendone il motivo di invalidità e ponendo così in essere un comportamento inconciliabile con la volontà di impugnarla è in grado di determinare una sorta di convalida del testamento per facta concludentia.

In altri termini questa sorta di convalida opera attraverso un comportamento di attuazione della disposizione invalida (ad esempio: consegna dei beni mobili ai beneficiari indicati nel testamento, consegna della chiave di un immobile legato per testamento), in grado di determinare volontariamente, rispetto ai beni ereditari, lo stesso mutamento della situazione giuridica che si sarebbe prodotto se il testamento fosse stato valido.

La ratio di tale istituto è evidentemente insita nel principio di conservazione degli atti giuridici (v. Cass. 19.04.1956 n. 1192), maggiormente giustificato negli atti mortis causa considerato che in essi l’autore non è più in grado di rinnovare il negozio, eliminando la causa di invalidità e, in secondo luogo, nell’intento di consentire ai congiunti del de cuius di dare esecuzione ai suoi atti di ultima volontà ancorché espressi in modo formalmente o sostanzialmente difforme dalla fattispecie normativa.

Il risultato generato dalla norma non è una vera e propria sanatoria, in quanto il testamento è e rimane invalido. E’ l’iniziativa di impugnazione a subire una limitazione, venendo infatti preclusa a coloro che hanno dato volontaria esecuzione a detto testamento.

Andando ora ad analizzare i presupposti contemplati dall’art. 590 c.c., essi sono rappresentati dalla nullità (o annullabilità) delle disposizioni testamentarie e dalla volontaria e consapevole esecuzione delle stesse.

Quanto al primo aspetto, si segnala che è pacificamente ammessa la sanabilità delle disposizioni testamentarie nulle in quanto inficiate da vizi di carattere formale. Ciò risulta non solo dalla lettera dell’art. 590 c.c. (“da qualunque causa dipenda”), ma anche dalla relazione al codice che fa testuale riferimento ai vizi di forma. Di conseguenza è senza dubbio ammissibile la conferma/esecuzione volontaria di un testamento olografo nullo per mancanza di autografia (v. Guido CAPOZZI, Successioni e donazioni, Tomo I, Milano, 2009, p. 931). Diversamente l’art. 590 c.c. si ritiene inapplicabile nelle ipotesi di insussistenza in rerum natura della disposizione testamentaria nulla, ossia ove manchi radicalmente la volontà del testatore, come avviene, ad esempio, nei casi di testamento nuncupativo (in forma orale), nei casi di testamento falso (laddove la volontà testamentaria sia stata coartata da violenza assoluta o sia del tutto inventata) e nel caso di una clausola testamentaria che contenga disposizioni contrarie all’ordine pubblico o al buon costume.

Per quanto riguarda, invece, il concetto di “esecuzione volontaria”, esso indica qualunque comportamento con il quale il soggetto adegua lo stato di fatto alla situazione che sarebbe stata creata dal negozio nullo, ove fosse stato valido.

L’esecuzione, però, oltre che volontaria, deve essere consapevole, ossia compiuta con la conoscenza non soltanto dell’esistenza della causa che ha determinato la nullità, ma anche del suo effetto (nullità o annullabilità). Si tratta, cioè, della “conoscenza storica del fatto invalidante e delle possibili conseguenze giuridiche” (Cass. 16.05.1966 n. 1236).

I “DIGITAL CRIMES”: LA SOSTITUZIONE DI PERSONA SU FACEBOOK

I “DIGITAL CRIMES”: LA SOSTITUZIONE DI PERSONA SU FACEBOOK

I "DIGITAL CRIMES": LA SOSTITUZIONE DI PERSONA SU FACEBOOK

E' reato la creazione di un profilo Facebook con nome di fantasia associato all'effige altrui

La crescente diffusione di internet e dei social network, quali Facebook, Instagram, Twitter, va di pari passo con la proliferazione dei cosiddetti “digital crimes”, ossia di quei reati commessi all’interno o per mezzo dei medesimi social network.

Uno fra questi è rappresentato dalla sostituzione di persona, reato punito dall’art. 494 c.p., ai sensi del quale: “Chiunque, al fine di procurare a sé o ad altri un vantaggio o di recare ad altri un danno, induce taluno in errore, sostituendo illegittimamente la propria all’altrui persona, o attribuendo a sé o ad altri un falso nome, o un falso stato, ovvero una qualità a cui la legge attribuisce effetti giuridici”.

Sul tema la giurisprudenza è ferma nel ritenere che integri il delitto di sostituzione di persona la condotta criminosa consistita nella creazione, su un social network, di un profilo avente un nome di fantasia, che riproduca, però, l’immagine di un’altra persona e nel conseguente utilizzo, con tale falsa identità, dei servizi del sito, consistenti essenzialmente nella possibilità di comunicazione in rete con gli altri iscritti, indotti in errore dalla identità dell’interlocutore, e di condivisione di contenuti.

L’imputato, nel caso in esame davanti al Giudice di legittimità (sentenza sopracitata) aveva, infatti, creato ed utilizzato su un social network un profilo con un nome di fantasia, associandolo, tuttavia, all’immagine di un’altra persona, del tutto inconsapevole.

La Suprema Corte ha ritenuto possibile integrare il dolo specifico richiesto dalla disposizione dell’art. 494 c.p. anche mediante la pubblicazione di un profilo su internet non del tutto riferibile alla persona offesa, ma comunque ad essa ricollegabile tramite una fotografia, qualora la condotta sia finalizzata a conseguire un vantaggio o a recare un danno.
E’ pertanto possibile integrare la fattispecie delittuosa di sostituzione di persona creando un profilo in un social network non del tutto riferibile alla persona offesa, utilizzando cioè una fotografia e non il nome reale della persona offesa.

Tale contegno è sufficiente per attribuirsi l’identità della persona offesa, inducendo altresì in errore coloro i quali comunichino con il “falso” profilo tramite chat, o mediante l’inserimento di commenti a “post” e immagini presenti su quella pagina Facebook.

CONDOMINIO: IL RIPARTO DELLE SPESE DI COPERTURA DEI BOX INTERRATI

CONDOMINIO: IL RIPARTO DELLE SPESE DI COPERTURA DEI BOX INTERRATI

CONDOMINIO: IL RIPARTO DELLE SPESE DI COPERTURA DEI BOX INTERRATI

Solaio di copertura dei singoli box interrati costituito dal cortile condominiale

Nel frequente caso in cui il solaio di copertura delle singole autorimesse interrate sia costituito dal cortile condominiale, da camminamenti o da aiuole comuni, trova applicazione l’art. 1125 c.c., in base al quale “le spese per la manutenzione e ricostruzione dei soffitti, delle volte e dei solai sono sostenute in parti eguali dai proprietari dei due piani l’uno all’altro sovrastanti, restando a carico del proprietario del piano superiore la copertura del pavimento e a carico del proprietario del piano inferiore l’intonaco, la tinta e la decorazione del soffitto”.

La giurisprudenza più recente, infatti, è ferma nel ritenere che nel caso in cui il solaio di copertura di autorimesse (o di altri locali interrati) in proprietà singola svolga anche la funzione di consentire l’accesso all’edificio condominiale, non ci si trova davanti ad una utilizzazione particolare da parte di un condomino rispetto agli altri, ma ad una utilizzazione conforme alla destinazione tipica (anche se non esclusiva) di tale manufatto da parte di tutti i condomini (Cass. 19 luglio 2011, n. 15841).

Per fare un esempio, la spesa di impermeabilizzazione del cortile condominiale, che funga da copertura dei box interrati andrà sostenuta per metà dai proprietari delle autorimesse e per l’altra metà da tutti i condomini che utilizzano l’area comune, con la precisazione che restano a carico del proprietario superiore (Condominio) le spese per la pavimentazione del cortile/aiuola/parcheggio e a carico di quello sottostante (i singoli proprietari delle autorimesse) l’intonaco, la tinteggiatura e la decorazione dei muri interni.

La ragione di ciò è rappresentata dal fatto che, se il solaio funge da cortile e su di esso vengono consentiti il passaggio di persone, il transito o la sosta degli autoveicoli, è evidente che a ciò è imputabile in maniera preponderante il degrado della pavimentazione, per cui sarebbe illogico accollare per due terzi le spese relative ai condomini dei locali sottostanti, così come prevedrebbe l’art. 1126 c.c. in tema di lastrico solare in proprietà esclusiva di alcuni condomini: “Quando l’uso dei lastrici solari o di una parte di essi non è comune a tutti i condomini, quelli che ne hanno l’uso esclusivo sono tenuti a contribuire per un terzo nella spesa delle riparazioni o ricostruzioni del lastrico: gli altri due terzi sono a carico di tutti i condomini dell’edificio o della parte di questo a cui il lastrico solare serve in proporzione del valore del piano o della porzione di piano di ciascuno“.

Parafrasando quanto sopra esposto, le spese per gli interventi relativi al cortile/pavimentazione che funge altresì da copertura ai box interrati andranno così ripartite:

– pavimentazione (copertura del pavimento ex art. 1125 c.c.), se prevista, a carico di tutti i condomini e suddivisa per i millesimi di proprietà;

– intonaco, tinta e decorazioni, se previsti, a carico dei condomini proprietari delle autorimesse sottostanti;

– le spese riguardanti la manutenzione straordinaria del solaio (o comunque della struttura sottostante il cortile, a copertura dei box) e la relativa impermeabilizzazione: 50% a carico di tutti i condomini e 50% a carico dei proprietari esclusivi dei locali sottostanti (delle autorimesse). Naturalmente la suddivisione tra i condomini va effettuata in base ai millesimi di proprietà ex art. 1123 I comma c.c.

LA RESPONSABILITÀ DEL GESTORE DELL’IMPIANTO SKILIFT

LA RESPONSABILITÀ DEL GESTORE DELL’IMPIANTO SKILIFT

LA RESPONSABILITÀ DEL GESTORE DELL’IMPIANTO SKILIFT

Quando il gestore è tenuto a pagare i danni?

Parte della dottrina e della giurisprudenza sostengono che ai casi di risalita effettuati con skilift non siano applicabili il contratto di trasporto e la relativa presunzione di responsabilità in capo al vettore, di cui all’art. 1681 c.c., in quanto il gestore dell’impianto di risalita si limiterebbe a fornire la pista di risalita, l’energia di trazione e l’ausilio per l’aggancio, mentre a tutto il resto dovrebbe provvedere il passeggero, con un comportamento diligente, idoneo a permettergli il raggiungimento della destinazione prescelta (una sorta di “autotrasporto”).

Secondo un diverso orientamento, invece, tale distinzione non è condivisibile in quanto, a ben vedere, nelle ipotesi di skilift, così come in quelle di funivia, seggiovia, cabinovia, il vettore assume il medesimo obbligo di trasferire l’utente sano e salvo da valle a monte, in base alle modalità concrete proprie del mezzo prescelto, dovendo in ogni caso rispondere di eventuali incidenti verificatisi nel corso del trasporto.

Di conseguenza anche al trasporto a monte a mezzo di skilift si applicherebbe l’art. 1681 c.c., che prevede una presunzione relativa di responsabilità a carico del gestore dell’impianto di risalita. Il gestore, quindi, deve rispondere dei danni occorsi all’utente durante la salita se risulti provata una violazione del dovere di diligenza, richiesto dalla natura dell’attività svolta e dalle specifiche circostanze del caso concreto.

Ad ogni modo, qualora si ritenesse che il trasporto a mezzo di skilift rappresenti un contratto atipico, la responsabilità del gestore dell’impianto di risalita per gli infortuni verificatisi durante il viaggio sarebbe regolata dalle comuni regole in materia di responsabilità contrattuale ex art. 1218 c.c..

Il risultato non cambia: l’art. 1218 c.c. pone comunque l’onere della prova dell’esatto adempimento della prestazione a carico del gestore dell’impianto, il quale dovrà dimostrare, così come nell’ambito dell’art. 1681 c.c. di aver predisposto le misure di cautela e di sicurezza idonee ad evitare il danno (in via esemplificativa: aver adeguatamente battuto la pista, aver posto segnali visibili relativi alla pendenza e alla difficoltà della pista stessa, non aver impresso velocità eccessiva o irregolare al mezzo, di aver munito l’impianto di personale ausiliario diligente).

E, in ogni caso, andrà senza dubbio verificato il comportamento tenuto dallo sciatore, in quanto è impensabile richiedere al gestore dell’impianto l’onere di accertarsi della piena osservanza da parte dei trasportati delle norme cautelari vigenti o delle abilità degli stessi, dovendo limitarsi a prevenire situazioni di effettivo pericolo per gli utenti.
Ad esempio la responsabilità del gestore è stata esclusa in caso di sciatore che si era infortunato su uno skilift ad ancora, perché lo aveva impropriamente utilizzato, ovvero nel caso in cui lo sciatore era stato investito dal conducente di uno slittino che aveva attraversato la pista di risalita dello skilift, ovvero nel caso in cui lo sciatore era stato colpito al viso dal piattello dello skilift abbandonato con eccessivo slancio dallo sciatore che lo precedeva.

DELIBERE CONDOMINIALI SU ARGOMENTI NON INSERITI NELL’ORDINE DEL GIORNO

DELIBERE CONDOMINIALI SU ARGOMENTI NON INSERITI NELL’ORDINE DEL GIORNO

DELIBERE CONDOMINIALI SU ARGOMENTI NON INSERITI NELL’ORDINE DEL GIORNO

Quando un'assemblea condominiale è annullabile?

Con l’introduzione della riforma del condominio (legge 220/2012, entrata in vigore il 18 giugno 2013) è oggi espressamente previsto, all’art. 66 comma 3 delle disposizioni di attuazione del codice civile, che l’avviso di convocazione di un’assemblea condominiale deve contenere la specifica indicazione dell’ordine del giorno, pena l’annullabilità ai sensi dell’art. 1137 c.c.

Prima della legge del 2012, si applicava, in via analogica, l’art. 1105, comma terzo c.c., dettato in materia di comunione, il quale prevede per la validità delle deliberazioni della maggioranza, che tutti i partecipanti siano stati preventivamente informati dell’oggetto della deliberazione.

In ogni caso, il ragionamento alla base è il medesimo: l’ordine del giorno riveste la fondamentale funzione di informare i condomini degli argomenti che verranno trattati in assemblea, affinché questi ultimi siano in grado di partecipare e votare consapevolmente.
L’ordine del giorno non deve specificare in maniera analitica e dettagliata tutti gli argomenti da trattare in assemblea, bensì è sufficiente che questi ultimi siano comprensibili nei loro termini “essenziali”, in modo tale da consentire ad ogni condomino di poter valutare l’atteggiamento da tenere, in relazione sia all’opportunità di partecipare, sia alle eventuali obiezioni o suggerimenti da sottoporre ai partecipanti (ex multis Cass. 30 luglio 2004 n. 14560).

Si segnala che, di recente, sull’argomento, è intervenuta una sentenza della Cassazione (Cass. 23 gennaio 2014 n. 1445), relativa ad un caso in cui un condomino, assente alla riunione, contestava una delibera assembleare impugnandola davanti all’Autorità Giudiziaria, in quanto avente ad oggetto un argomento non inserito nell’ordine del giorno. D’altra parte il Condominio, convenuto in giudizio, asseriva che tale argomento, seppure non inserito all’ordine del giorno, era comunque conosciuto dal condomino.

Ebbene, la Cassazione ha dato ragione al condomino, affermando lapidariamente che “la conoscenza degli argomenti da trattare in assemblea va desunta esclusivamente dall’ordine del giorno e non aliunde”.
La totale mancanza o l’incompletezza dell’ordine del giorno, come sopra accennato, comportano l’annullabilità della decisione assembleare che può essere fatta valere senza dubbio dal condomino assente, ma anche da quello dissenziente (o astenuto), il quale, però, abbia eccepito l’irregolarità della convocazione.
Perfettamente valida, invece, la delibera su un argomento non indicato nell’ordine del giorno, qualora la decisione sia stata approvata all’unanimità da tutti i partecipanti al condominio.